ULISSE AD AUSCHWITZ

SE QUESTO È UN UOMO

dall’opera di Primo Levi

con

Daniele Salvo

Martino Duane

Patrizio Cigliano

Simone Ciampi
reading a cura di Daniele Salvo

Dal 20 al 25 Febbraio va in scena al Teatro Ghione Se questo è un uomo dall’opera di Primo Levi, con la regia di Daniele Salvo e con Martino Duane, Patrizio Cigliano, Simone Ciampi. E potrei fermarmi qui, dopo aver scritto soltanto il titolo, pesante come un macigno, freddo come la neve, quella di Auschwitz; doloroso come spilli che solcano pelli umane. Eppure il regista, Daniele Salvo, vuole prendere per mano lo spettatore addentrarlo in quei campi di concentramento, proiettati alle sue spalle e a quelle degli altri perfomer. Lo fa con delicatezza, senza la presunzione di insegnare, senza alterare una riga soltanto di quelle che l’autore, Primo Levi, ha sentito il dovere di riportare con estrema fatica. Ed è la fatica che deve essere trasmessa, insieme agli occhi aperti su corpi consumati, spogliati da dignità, senz’anima, senza speranza, se non quella di aver vissuto fino al giorno in cui, qualcuno, la vita ha deciso di cambiargliela. Sono uomini, quelli in scena, che compatiscono (nell’accezione etimologica della parola) il dolore di altri, sopravvissuti all’orribile fabbrica di morte, Auschwitz, che produsse oltre un milione di vittime di cui il 90% ebrei, ma tra quelle mura finirono anche polacchi, russi, Rom, Sinti, omosessuali e testimoni di Geova. Sono attori che interpretano, leggendole, le parole della testimonianza lasciataci da Levi: parole precise, dettagliate, scandite da realtà macabre e, purtroppo, come il mondo intero sa, senza romanzare una virgola. Letture che sono la danza macabra della memoria storica, in una scenografia didascalica e semplice, composta da cappotti a terra sul palco, come se fossero anime dimenticate; una neve che ricorda il freddo entrato fin dentro le ossa; valigie con una sola destinazione scritta: Auschwitz, per l’appunto. Lo spettatore regge, a denti stretti le lacrime durante tutta la performance. Ce n’è uno, però, di momento ancora più umano di tutti quelli proposti dagli attori/Primo Levi sul palco: con timbri dolci ma sofferenti, come quelli di uomo che teme la morte ogni secondo cha passa, a piccoli sforzi, disegnando un sorriso sul viso ben visibile dalle luci e dalla mimica facciale, ripercorre a memoria i passi di Ulisse del XXVI canto dell’ Inferno di Dante Alighieri: piccoli stralci di vita in un lager di morte, la vita di un uomo che ha saputo ricordare.

Maria Francesca Stancapiano.

IPOGLICEMICI METROPOLITANI

Le giornate si costruiscono tra appuntamenti di lavoro, metro prese, metro perse, occhi da studiare, occhi da evitare. “Istruzioni mentali” su come possa essere la vita di ciascuno degli essere umani che incrocio sui miei passi e che, per pochi istanti, vivono con me. Da dove scendono? Dove vanno? Verso chi vanno? Perché penso sempre che una persona vada verso un’altra, che ci sia sempre qualcuna/o che la aspetti? Con-dividere. Con chi? Dividere perché? “Divido con te una fetta del mio dolce affinché tu possa avere un carico glicemico nella tua giornata di oggi, affinché il tuo corpo possa sapere che siamo fatti anche di zucchero, affinché possa assaporare anche i colori in un morso. Affinché questa dolce droga possa portarti un sorriso per qualche ora”. Sembra che si dicano questo, chi si tiene mano nella mano, chi si saluta con un sorriso, chi si abbraccia, chi “Ci prendiamo un caffè INSIEME?”. Una stretta di “dolcezza”. Ne consegue, allora, che siamo tutti un pò ipoglicemici. Scendiamo dalla metro di corsa alla ricerca sfrenata di quel picco zuccheroso: dunque, ecco perché la gente corre in questa grande città! Ad intermittenze ipoglicemiche si cerca: in una vetrina, in uno specchio, in atto di sano edonismo, narcisismo, tenerezza di un ricordo da accendere, ad intermittenza, appunto. Forse, sono solo intermittenze. Forse.

TORRE ELETTRA. UNA CONTAMINAZIONE LETALE

“Torre Elettra” con Valentina Perrella, Liliana Massari, Cristina Todaro, Luciana Guerra, Alessandro Giova e Matteo Montalto (drammaturgia e regia Giancarlo Nicoletti), è in scena al Brancaccino fino a domenica 29 gennaio. Lavoro inedito di Planet art collettivo teatrale, pluripremiata under 35, fra le rivelazioni della scena romana e nazionale. In una periferia di una Roma futuribile c’è Torre Elettra, terra senza giustizia, di sopravvivenza, inquinata di malattie che richiamano alla sete di vendetta. Una scenografia ricca di scatole, in quantità eccesiva che rimandano, subito, ad un degrado. Una famiglia segnata da violenze e tradimenti, si muove tra queste, ciascuno con il proprio carattere, ma, soprattutto, con la propria fragilità da nascondere dietro la maschera della rabbia. Sei personaggi si interrogano su quale sia la vera giustizia da perseguire: se quella civile e morale, o di natura, dettata da quella del più forte. Il concetto della dike, dunque, presente nelle tragedie greche, in modo particolare nell’Orestea di Eschilo, che qui fa da grande eco in chiave contemporanea. Una famiglia composta da una madre stratega, che vuole nascondere ai propri due figli superstiti il vero motivo della morte del loro padre: non per cancro all’intestino in fase avanzata, ma per assassinio preterintenzionale, al fine di poter accompagnarsi a chi governa Torre Elettra. Si può perdonare un tale atto? Perché vendicarsi del passato se tanto il padre è morto, chiederà ad un certo punto uno dei due figli, appena tornato a casa dopo sei anni trascorsi in Germania. Ma chi ha vissuto quel dolore ogni giorno (testimoni i propri occhi), chiede vendetta; se non alla madre, quanto meno al compagno. Non ci riuscirà il fratello, per troppo amore filiale. E, mentre parte della nuova famiglia si recherà alla visione di uno spettacolo teatrale dal titolo “Amleto”, in casa, la sorella, malata di affezione venerea, la stessa dal quale il padre era stato contagiato, si concederà al compagno della madre trasmettendogli il proprio veleno. L’uomo, presto contagiato, si ammazzerà in preda ad una pazzia delirante. Rimarrà conoscere se ha la meglio l’espiazione o il perdono. Questo, credo, vuole comunicarci il regista/drammaturgo Giancarlo Nicoletti (buona la sua duplice prova), regalandoci un’immagine – quasi pittorica e commovente – di una famiglia che, nonostante il passato e le rabbie nel presente, sa unirsi. Non c’è una risposta. Ma un legame, un cerchio che si chiude costruito da citazioni shakespeariane, pasoliniane, e del teatro greco.

CONTAMINAZIONE

PASSAGGI INEVITABILI

Credo che prima o poi tutti noi, ogni singolo componente di questa terra, abbia un appuntamento con la storia. Con la propria storia. Che messa insieme a quella degli altri va a trovare un filo, un collegamento in più alla storia di un altro. E via dicendo. Fino a passare da ricordare quel singolo momento, epicale, come la miccia scatenante di una serie inevitabile di eventi necessari nella storia. E’ così che va. O che almeno dovrebbe andare. Pensate se il gesto di una persona fosse realmente utile a quello di un’altra, che poi lo tramuta in un altro ancora per un’altra persona e via dicendo. Tale da creare una unica comunità senza accorgecene. L’ideale! Ed il momento, il passaggio perché quell’evento avvenga; perché si arrivi all’appuntamento preparati. Quell’attimo prima in cui stai per uscire di casa, e mille volte ti guardi allo specchio per salutare il presente che sta per diventare passato, ogni secondo in più. Quel momento in cui più volte guardi negli occhi quella persona prima di un saluto per poi voltargli le spalle e salire su di un treno. Quei vari “prima di” hanno sempre il sapore della paura che trasmette adrenalina

CAFE’ CHANTAT: QUANDO IL PALCO DIVENTA “OSCENICO”

VAUDEVILLE IN DUE ATTI DI TATO RUSSO DA EDUARDO SCARPETTA
SCENE PEPPE ZARBO
COSTUMI GIUSI GIUNTINO
MUSICHE ZENO CRAIG
DISEGNO LUCI ROGER LA FONTAINE
COLLABORATORE ALLA REGIA LIVIO GALASSI
CON L’ORCHESTRA GRAN CAFE’ CHANTAT DIRETTA DA GABRIELLA DE CARLO
  • Tato Russo                 Felice Scioccammocca
  • Mario Brancaccio     Peppino Diodati
  • Clelia Rondinella     Carmela
  • Caterina Scalaprice  Yvette
  • Francesco Ruotolo    Ciccillo, il maestro
  • Diletta Boné               Luisella
  • Dodo Gagliarde          Aspreno
  • Antonio Botta            Giacomino
  • Salvatore Esposito    Don Vincenzo
  • Renato de Rienzo       Antonio
  • Massimo Sorrentino Don Carlo
  • Carmen Pommella    Donna Gigia
  • letizia Netti                 Bettina

Siamo nel 1893 e già Eduardo Scarpetta decide di denunciare la crisi del teatro di prosa scrivendo quest’opera. Il tramonto del capocomico, che non avrà più il proprio spazio, non verrà più rispettato dal pubblico, quest’ultimo che gira, invece come un cane affamato tra nuovi spazi di intrattenimento dove i costumi di un “Otello” o di una “Tempesta” di Shakespeare, vengono bruscamente sostituiti da lustrini e gambe femminili alla portata degli occhi di tutti. Nasce, così, uno studio socio /antropologico /teatrale per giustificare la nascita di un certo Cafè Chantat, a Napoli, Pozzuoli esattamente, ma anche dei molti che ne verranno a seguire in tante altre città. E che comporteranno il cambiamento di usi e costumi dell’uomo stesso. Della ricerca delle diverse necessità rispetto a prima. Del voler tutto e subito, rispetto alla “saggia lentezza” del teatro. Di quelle “tavolette di  legno”, su cui nascevano, vivevano e morivano innumerevoli personaggi.

L’attore-regista Tato Russo decide di riprendere in mano l’intera eredità di Scarpetta. E, sembra, con nessuna fatica e alcun peso. Insieme alla sua compagnia riadatta l’opera in un vaudeville in due atti, riproponendola presso Il Teatro Parioli, Roma.

La storia è la stessa: Don Felice Sciosciamocca insieme al suo fedele compagno di palco Don Peppino Spica, continuano ad inseguire il mito della prosa teatrale, dei grandi drammi, del sapere interpretare. Ma il tutto invano perchè sta prendendo sempre di più il sopravvento il Cafè Chantat. Felice cerca così di arrotondare con le sue “lezioni di recitazione e declamazione” in cui si cimentano due giovani amanti, Luisella e Giacomino, che si danno appuntamento in casa di Don Felice per vedersi all’insaputa di Aspremo, padre di Luisella, per progettare una fuga insieme. Intanto, Carmela e Bettina, prima artiste dell’operetta, oggi mogli dei nostri sventurati protagonisti, si lagnano del fatto che i loro mariti non sono in grado di sfamarle e così, dopo aver costretto Ciccio, servitore di casa Sciosciammocca, a svendere gli ultimi costumi di scena diDon Felice, accettano all’insaputa dei loro mariti, una scrittura per un nuovo Café Chantant che presto aprirà a Pozzuoli. Spinti dalla fame, anche Felice e Peppino decidono di accettare una scrittura per un Café Chantant escogitando un sistema, con tanto di “mazzate”, per non far sapere niente alle proprie mogli, alle quali non vogliono ammettere di essere caduti così in basso. Destino beffardo, i nostri protagonisti si ritrovano nello stesso Café in cui sono scritturate le loro mogli, con grande rammarico dei proprietari del Café Chantant, Don Carlo e sua sorella Gigia, che ormai credevano di aver trovato, grazie ai loro fidati servitori Totonno Vincenzo, l’uno due “sciascione” cui fare il filo, l’altra, vedova, due attori napoletani tra cui scegliere quello con cui risposarsi. Nel Café, intanto, arriva anche la coppia “Beròt “, così si fanno chiamare Giacomino e Luisella,mentre Don Carlo è alle prese con diversi altri problemi che lo spingono a pregare i soli “artisti” di cui ormai dispone ad improvvisare qualcosa per l’apertura imminente del Café, cosicché essi si trovano costretti a dover inventare, in sole due ore, un improbabile spettacolo fatto di canzonette, scenette.

Una commedia dall’eco eduardiano. Dove la risata è sì al primo posto. Ma è sempre quella dal gusto amaro. Quella che fa riflettere, in preda agli “a parte” di alcuni personaggi. Una commedia degli equivoci, con varianti che alludono a quelle latine, in modo particolare alle commedie di Plauto, in cui i personaggi, seppur per situazioni diverse, si perdono per “equivoci”, e poi si ritrovano negli stessi posti. Proprio come nel caso di “Cafè Chantat”. Tutti si perdono tra loro e si ritrovano su un “palco-oscenico”, dove”riperdersi” interiormente, tra canzonette e applausi forzati. Tra stacchetti e soubrette.Tra un trucco troppo marcato che enfatizza le rughe del troppo disagio. Ed ecco che la risata si fa ancora più amara, che l’arco, sulla faccia dello spettatore, inizia a spegnersi.

Magistrale un Tato Russo e la sua compagnia che, dietro a quel tendone roso del palcoscenico, ci ha riproposto una realtà non moderna, bensì contemporanea. Una situazione dove il teatro di prosa potrebbe avere più respiro. Una situazione contorniata da altre di notevole spicco. Come i media, come internet, come smartphone. Insomma: realtà che levano la capacità di poter ragionare con tempi anche dilatati, perchè bisogna adeguarsi alla velocità di una luce che brucia. E che può danneggiare, a volte, su di una terra che è come un “palco-oscenico”.

teatro15879048_10211442055388228_178720181_n

L’INGIUSTIZIA UGUALE PER TUTTI

Chaplin diceva che bisogna sempre avere il coraggio delle proprie idee, senza temere le conseguenze.

L’uomo è libero solo se può esprimere il suo pensiero senza condizionamenti di sorta, e per quanto la cosa sembri banale, nulla è più attinente alla verità. La Costituzione italiana sancisce tutto ciò: «Tutti i cittadini della Repubblica italiana sono uguali di fronte alla legge anche se appartengono a razze diverse, se parlano lingue diverse, se credono in un Dio diverso e sono di sesso diverso. L’uguaglianza significa non che tutti sono o debbano essere uguali ma che le differenze esistenti tra le persone non possono essere motivo di discriminazione e di trattamento differenziato.
La libertà di manifestare il proprio pensiero è garantita al cristiano così cme al musulmano e al buddhista. Il principio di uguaglianza fa sì che debbano essere eliminati o rimossi gli ostacoli sia fisici che morali che si frappongono ad una effettiva uguaglianza, è perciò strettamente legato al concetto di giustizia, in quanto implica la necessità di regolare con leggi, a volte particolari e specifiche, il miglioramento delle condizioni dei meno abbienti e dei più deboli.»
Così recita il principio di uguaglianza e giustizia all’interno della nostra fonte per eccellenza: la Costituzione.

Voglio approfondire queste parole di profondo valore etico. In primo luogo, tutti i cittadini della Repubblica italiana sono uguali di fronte alla legge anche se appartengono a razze diverse. Dovrebbe essere così. Nella realtà, se ci si guarda bene intorno, altro non si è che elementi facenti parte di caste feudali, ciascuno con diritti e doveri diversi. Chi è ai piani alti ha più diritti che doveri, chi è ai piani bassi solo doveri. Il dovere di alzarsi presto per tendere la mano, avere la fortuna di raccattare qualche briciola che cala dall’alto, ed accontentarsi di questa, per oggi. Un esempio estremo, forse, ma per nulla fuori dalla vita comune. Aggiungiamoci, poi, la componente che il colore della nostra pelle non è uguale per tutti. Perché si, è vera quella storia che esiste l’uomo bianco e l’uomo nero. E la maggior parte delle volte il primo snobba, con fare altezzoso, innato, come se fosse un esercizio da tramandare di generazione in generazione, l’uomo nero, il quale cammina chino e con la testa bassa, perché crede ancora di avere perso il permesso di soggiorno: l’ultima bugia, a fin di bene, che si era detto. Perché per l’uomo bianco è comoda la storia che l’uomo nero è un intruso, che gli ruba la terra e il lavoro, (una terra che di fatto non appartiene a nessuno dei due, ma ad entrambi nella stessa misura), quello cattivo, che viene nella notte se i bambini non dormono. Una fiaba, che io trovo di un’ignoranza abissale. Ed anche Dino Buzzati si sforzò, in un racconto Il Babau, all’interno della raccolta Le notti difficili, di provare che il diverso non può far paura, descrivendo il povero Babau come colui che temeva l’essere umano, e per questo emergeva solo di notte.
E per tutte le volte che vedo un uomo di colore vorrei fermarlo e chiedergli scusa. «Scusa uomo nero se pensiamo che di notte entri nelle camerette dei nostri figli per fare loro del male.»
«Scusa uomo nero se l’uomo bianco ti da del tu quando ti incontra per la strada, mentre cerchi di venderci qualcosa: tutti abbiamo diritto ad un minimo di dignità e rispetto nella forma. Io, almeno, ci tengo, poi non so tu.»
«Scusa uomo nero se l’uomo bianco non è capace nello stringerti la mano, ma nel togliertele, legandotele ad una continua schiavitù.»
«Scusa uomo nero se io non ho imparato ancora ad urlare a chi non ti rispetta.»

Per cui, caro uomo nero, se parli la tua lingua, ti insultiamo imponendoti di parlare la nostra perché vivi qui, sul suolo italiano, di buoni costumi e tradizionalista. Noi si che sappiamo stare alla gente. Pensa, caro uomo nero, parliamo tanti dialetti che a noi, dell’unione, cosa importa? Mica come te che parli una lingua per ogni stato da cui provieni. Ah, caro uomo nero, ma che ne vuoi sapere? Il tuo Dio? Beh: sai che ti dico? Continua a pregarlo. Fatti ammirare mentre lo fai. Perché noi ci siamo dimenticati di come si fa. Io, oramai, non ci capisco più niente! Dicono che siamo uguali. Ed io vorrei essere come te. Ed il bello è che  so che me lo permetteresti!

Io sono una donna, una donna in Italia. Io sono una donna in Italia oggi.  Io sono donna in Italia oggi. Punto. Ho più vantaggi rispetto alla donna in Italia ieri. Virgola. Tipo: ho frequentato l’università, ed ho avuto professori uomini che durante gli esami, mi hanno interrogata a porte chiuse, senza assistenti, con una sigaretta accesa, promettendomi la lode se andavo a ripassare la Divina Commedia a casa loro.  Ma ho declinato ogni loro invito e la lode non l’ho mai avuta. Ho portato qualche volta le gonne e avevo gli occhi degli uomini appiccicati addosso come pegno da pagare se decidevo di indossare un capo del genere. E per questa sensazione fastidiosa, per anni ho preferito i pantaloni, le camicie, e mai i tacchi. Io ho avuto la possibilità di sostenere dei colloqui di lavoro: «Lei è sposata? Ma mica vorrebbe? Ma è incinta? Ma mica vorrebbe?» e come aumenterebbe la demografia in Italia? Ed ecco che ancora un lavoro vero e proprio non ce l’ho. Però, come ognuno sa, le donne hanno, secondo la legge gli stessi diritti degli uomini. Proprio in un’Italia che è uguale da nord a sud, isole comprese.
Ma nella vita reale non si ha quest’ impressione. Oggi ci sono già donne manager, donne che fanno carriera in politica e anche donne scienziata, donne pilota, donne designer, e così via.

È molto difficile emanciparsi per le donne meridionali. Nel mezzogiorno le donne devono portare solo vestiti neri, devono coprire la loro pelle ed il loro destino sarebbe rimanere sempre a casa e fare la casalinga.
Ma oggi, anche la donna meridionale ha cominciato a emanciparsi, e per lo più le ragazze fuggono dalla tradizione del Mezzogiorno al Nord dove possono trovare più possibilità per studiare ed istruirsi meglio. Qualche volta si trovano anche nel Sud donne che occupano un posto di grande prestigio.
Pieno rispetto per la donna, perché ricordiamo: Tutti i cittadini della Repubblica italiana sono uguali di fronte alla legge anche se sono di sesso diverso.

La libertà di manifestare il proprio pensiero è garantita al cristiano come al musulmano e al buddhista.
Così noi continuiamo a scendere in piazza. A manifestare per i nostri diritti. Il problema è che questi diritti sono sempresbagliati. Ed il più grande terrore è che poi dall’alto si domandano cosa manifestiamo a fare, se nulla cambia.
Perché volerci togliere l’ultima speranza di credere in un piccolo cambiamento? Perché quegli striscioni non vengono letti? E perché “altri” non scendono in piazza con noi?”
Se ci ascoltassimo tutti un po’ di più, non con l’orecchio, ma con il cuore, con la mente, allora io credo che forse nessuno si lamenterebbe più di alcuna manifestazione, perché non sussisterebbero. Ma alla fine, forse è giusto anche così: gli uni da una parte, senza scomporsi, senza sporcarsi. E noi a vivere quelle bellissime sinergie che in una manifestazione si possono creare perché, per fortuna o sfortuna, nel dolore non si è mai soli. I cori diventano una voce sola. Come unica è la bandiera da seguire. Essenziale, dunque, ricordare di ricordarci il nostro diritto di uomini. Di uomini che si sporcano le mani di grasso nelle fabbriche che stanno per chiudere, e nonostante tutto, quelle mani continuano a lavorare, con la speranza di potersi sporcare a vita le mani, perché siano pulite quelle dei loro figli e delle loro mogli. O di essere umani che, alla fine chiedono soltanto di amarsi alla luce del sole senza doversi nascondere. Manifestare perché l’amore sia riconosciuto: questo è un paradosso.

Lo ammetto, sono indignata di un’Italia dove la giustizia è una buona ingiustizia. Dove chi riceve un pugno, paga. Dove una maestra che picchia i bambini è agli arresti domiciliari. Dove noi giovani, donne, uomini, non abbiamo tanto fiducia nel futuro. Sono indignata perché è la mia Italia. Perché è la mia madre.
Eppure continuo a tenere alta la testa insieme a quella bandiera perché so che, dallo stesso ventre, milioni di persone ne sono usciti come me, e se mi volto, siamo in tanti a  continuare a credere in un futuro che rincorriamo, come dietro a una locomotiva.

VOLEVO SOLO SBOCCIARE

“Volevo solo sbocciare”
Voleva solo sbocciare, continuare a profumare e a guardarsi allo specchio, mentre cresceva nella sua bellezza, mentre si scopriva sempre più donna tra le donne. mentre il suo profumo era sempre più bello , perchè diverso dagli altri.

Voleva solo continuare a vivere, costruire giorno per giorno la sua scala, fatta di note, di composizione quotidiane, di bianchi e neri e di colori fluo, talmente fluo, da accecare la vista dei passanti.

Voleva solo continuare a sorridere, inciampare e rialzarsi, e poi di nuovo sorridere, inciampare e rialzarsi, una, cento, mille volte, per poi, un giorno, raccontarlo a chi avrebbe incontrato, e chi avrebbe amato.

Voleva solo correre.
Ma sul mare, al tramonto, in quelle sere d’estate. Quando il profumo delle rose, vicino, è più intenso. Quando la vanità dei petali si sposa con il rosso intenso caldo del sole. E magari, poi, strappare una di quelle rose per regararla alla madre e di nuovo dirle “grazie”.

Invece ha corso. Mentre il suo profumo veniva mangiato dall’odore forte di benzina. Ha corso lasciando petali in mezzo alla strada perchè i passanti si fermassero per riconsegnarglieli. Quella notte. Quella dannata notte in cui lei chiedeva soltanto di voler continuare a sbocciare.

UNO STRANO 4 OTTOBRE

“Voi mancate di pietà: non volete essere nient’altro che giusto, il che vuol dire che siete ingiusto.”

F.M. Dostoevskij, L’idiota

E’ un normalissimo 4 Ottobre. Sono le 20.00. E come ogni sera, a quell’ora, ascolto i titoli del telegiornali. Si. Sono abbastanza abitudinaria, lo so. Ma le abitudini mi hanno, spesso e volentieri, salvata. Sono le 20.05, quando al telegiornale, un certo cronista annuncia l’ultima notizia inerenti il caso Stefano Cucchi. “ Secondo la perizia, il ragazzo sarebbe morto per epilessia”.

Sono le 20.06 di un non più normalissimo 4 Ottobre del 2016. No. Non lo è più. Respiro a lungo. Entro in confusione e sbatto la mani contro le mie gambe. Il fiato esce in un “Ma ti rendi conto?” A riempire il vuoto della sala. Confusione. Non focalizzo più l’attenzione sulle altre notizie. Mi alzo. Mi avvicino alla finestra; scosto la tenda e guardo la corte d’appello. Rabbia. Ascolto echi di una manifestazione che sarebbe potuta esserci per una sentenza del genere; vedo le ombre dei parenti della famiglia Cucchi, ancora più afflitti, ma non piegati. Vedo toghe. E punti di domanda a loro fianco. Vedo un insieme di epilettici ancora vivi. Vedo, in tutto questo teatrino immaginario, solo il mio volto riflesso al vetro di una finestra, alle 20.15, di questo 4 Ottobre 2016. Eccolo L’idiota del nostro secolo.

Questo giorno in cui hanno ucciso, per l’ennesima volta, un cristiano con tutti i suoi peccati, come ogni cristiano senza giacca e cravatta. Questo giorno in cui hanno molestato le nostre menti, con la balla che si muore di epilessia, al giorno d’oggi. Questo giorno in cui chi soffre della suddetta malattia, ha subito un oltraggio ingiusto.

Non sono mai morta, in diciasette anni di malattia. Non sono mai morta durante le mie lunghe ed estenuanti convulsioni, sia monitorate, che non. Non mi sono mai risvegliata con occhi tumefatti o vertebre spezzate. Non sono mai morta. Se non ogni giorno per rivivere quello dopo, come ogni essere umano esente da qualsiasi patologia. Non sono mai morta. Ma oggi, in questo strano 4 Ottobre, mi sento più viva che mai, digrignando i denti, sentendo tutta la tristezza del mondo nel mio corpo vivo, nel mio sangue caldo che scorre le vene. Nelle mie ossa che sostengono il mio corpo. Sul mio viso inumidito da lacrime che scendono su guance rosse.

Sono le 20.30 di un triste 4 Ottobre 2016. Il telegiornale è finito. Torno sul divano. Spengo la tv. Mi sento offesa. Offesa da una “giustizia” che continua a sparare, a far male. A manipolare l’intelligenza dell’essere umano. E’ uno stato convulso, indemoniato, non curato. Malato.