Sei tu.

“Sei tu” le dice. Una certezza in quella frase che rimarcava un mondo, un passato, una storia. Una fra tante, da custodire. “Tu. Qui. Ora”. Si protrae verso di lei e, senza far passare un altro secondo, la stringe, forte. La respira, le tocca anche i suoi, di capelli, per accertarsi che non fossero ancora bianchi. Poi le prende il viso e la sua mano. E la porta al proprio. Di viso. Due angeli che si scambiano la vista. Due essenze animali, che si riconoscono oltre la luce.

E DI QUANDO…

E di quando ti gettai un amo per amare

Ricordo
Le tue mani in tasca, poco prensili, poco tatto

E di quando raccolsi pezzi di vetro per specchiarti
Ricordo
I tuoi occhi spegnersi per il riflesso di una luce spenta.

E di quando i miei tacchi suonavano la musica della libertà, mentre mi allontavo
Ricordo

un sorriso tagliente al gusto di vita sulle tue labbra.

E di quando ti accorgesti di essere solo un castello di parole
Crollasti.
Lo ricordo.

JACK KEROUAC E IO

“Le nostre valigie erano di nuovo ammucchiate sul marciapiede; avevamo molta strada da fare. Ma non importava, la strada è la vita.”

 (La strada di J.Jerouac)

Come direbbe il vecchio J. Kerouac. E mi piace immaginarlo, ora, seduto di fronte a me, con un bicchiere di whisky in mano, la sigaretta consumata tra le dita, le cuffie sulla sua testa e quell’aria da uomo affamato di umanità, con un sorriso saggio sulle labbra e tanta, tanta voglia di conoscere ancora. E avrei voglia di farmi una bella chiacchierata con il vecchio “Jack il mago” come l’aveva soprannominato Ginsberg, poeta statunitense, per farmi raccontare dei posti visti, degli odori, degli occhi delle persone. Se anche a lui capitava di sentirsi più a suo agio a parlare, durante il viaggio, con uno sconosciuto, nel chiedergli le abitudini, i pensieri del mattino e della sera, e altre cose. Perché, caro Jack, a volte io davvero mi sento più a mio agio a parlare con una persona che non ho mai visto prima in vita mia.  Mi ricordo che quando lavoravo in un locale, qualche anno fa, il mio divertimento puro era scambiare quattro chiacchiere al bancone con i clienti. E, caro Jack, non puoi capire quanto quelle ore di lavoro passavano più velocemente e con più leggerezza, mentre con meccanicità facevo un caffè; e intanto, tra il marrone scuro dei vari chicchi  che si macinavano e restituivano polvere scura,  entravo in paesi mai visti prima, o potevo vedere corpi e capelli di bambini color latte, mentre facevo un cappuccino. E che dire del rosso corposo dei vini e dei profumi di cocktail da colori vivaci e pestati , come un mojito. Che poi è vero che una persona la classifichi proprio in base a quello che ti chiede: sono fantastici quelli che si perdono nelle birre: loro sono decisamente i più alla mano, ti parlerebbero per ore e ore, con i loro jeans, le camicie sbottonate, e le scarpe da ginnastica un po’ consumata, si siederebbero dall’altra parte del bancone, con i gomiti appoggiati, e non ti lascerebbero mai sola, mentre le ore passano, e devi servire altri clienti. Che dire, invece, degli intenditori di vini italiani! Sorseggiano, fissano il bicchiere, scandiscono i nomi di qualche persona incontrata, o di qualche vento che per loro sia di notevole importanza; girano più volte il calice, per decantare, e si perdono nei vari cerchi che scendono sul vetro del bicchiere. E si ammutoliscono. Il bevitore di caffè è celere ma intrigante: poche parole ma buone. E’ il classico cliente che inizia una storia, e ti lascia in suspance perché deve correre da un’altra parte. Monetina sul bancone e “a domani”. Potrei andare oltre con tutta la lista dei cocktail, caro Jack, ma li conosci anche tu, visto che hai viaggiato più di me, e che anche tu sei stato frequentatore di bar e locali. Allora, lascia quel whisky, e prenditi una birra fresca, con me.

Barista portaci da bere! Va bene, caro Jack? Nel frattempo passami qualche estratto dal tuo romanzo sulla strada, per rispolverarlo insieme, per chiudere gli occhi, insieme, ed insieme rivedere.

Di tanto in tanto un bagliore fioco arrivava dall’agglomerato di baracche, ed era lo sceriffo che faceva la sua ronda con una debole torcia elettrica borbottando tra sé e sé nella notte della giungla. Poi vidi la luce dirigersi a scatti verso di noi e sentii il rumore dei passi attutito sul tappeto di sabbia e sulla vegetazione. Si fermò e diresse la luce della torcia verso la macchina. Mi alzai a sedere e lo guardai. Con voce tremante, quasi querula ed estremamente tenera, disse: “Dormiendo?”, e indicò Dean sdraiato sulla strada. Sapevo che quella parola significava dormire. “Si. Dormiendo.” . “Bueno, bueno”. Disse tra sé e sé, e si girò triste e riluttante per tornare alla sua ronda solitaria. Poliziotti così adorabili Dio non li ha mai creati in America. Niente sospetti, niente storie, niente noie. Quell’uomo era il guardiano del paese addormentato, punto e basta. Tornai al mio letto d’acciaio e mi sdraiai con le braccia spalancate. Non sapevo nemmeno se proprio sopra di me c’erano i rami d’alberi o cielo aperto, e non me ne importava assolutamente niente. Aprii la bocca a quello che mi sovrastava e presi grandi boccate di atmosfera della giungla. Non era assolutamente aria, piuttosto l’emancipazione palpabile e viva di alberi . restai sveglio. Il canto dei galli annunciò l’alba chissà dove fra i cespugli.(Sulla strada, J.Kerouac)

Una sorta di diario il tuo romanzo, caro Jack, dove hai scritto un po’ quello che hai visto: il paesaggio, la natura, gli americani; hai scritto esattamente cosa loro dicono, e come lo dicono, alla fine degli anni quaranta. Però, credo, che attraverso la descrizioni dell’esterno hai raccontato un po’ il tuo mondo interno, un desolato vuoto interiore. E ti inganni, se lo volevi nascondere, perché a un certo punto scrivi Tutto questo dentro un vuoto senza principio e senza fine.

Siamo a metà birra, vecchio Jack, e saltiamo da un bancone di un locale a una macchina rombante su di una strada. Ma tu, hai mai avuto paura del futuro? Dell’imprevedibile? Ti sei mai chiesto come sarebbero stati i tuoi giorni prossimi o li hai solamente vissuti nel presente? No perché, caro Jack, io a volte mi fermo. Penso al mio futuro. Si insomma tutto ciò che può avere a che fare con il lavoro, la salute, uno stato che mi rappresenti. E sai cosa? Ho paura. Lo ammetto. A volte ho paura del futuro. Quand’ero piccola non mi ponevo il pensiero. Vivevo in una campana di vetro e il massimo che potessi temere era una nota in classe o che i miei non mi facessero uscire. Era un mondo ovattato, il nostro. Guardavamo i grandi sbocciare e fiorire in un mondo di colori. Oggi non è così. Oggi mi sento grande e sbocciata. Ma a volte respiro solo smog, e illusioni. E non sempre mi sento rappresentata. E allora mi rinchiudo, mi ricerco in foto passate, vecchi diari, vecchie frasi, vecchi sorrisi. E nel frattempo cerco una soluzione, aspettandola anche dagli altri. Certo. Non posso deprimermi. Non serve a niente e a nessuno. Cerco di andare alla ricerca della positività. Nel ripetermi “a tutto c’è una soluzione” un po’ come quando faccio la valigia e mi prendono quegli attacchi di ansia, da non capire se tutta quella roba dentro basta o ce ne vuole ancora, e mi tranquillizzo dicendo “andrà tutto bene! Tanto poi un’anima che ti aiuterà ad alleggerirti la valigia ci sarà”. Ecco. Si credo che il futuro sia anche un po’ come una valigia piena di paure. Prima o poi qualcuno che ti aiuti ad alleggerirle ci sarà.  Per forza.

Ogni giorno della vita è unico, ma abbiamo bisogno che accada qualcosa che ci  tocchi per ricordarcelo. Non importa se otteniamo dei risultati o meno, se facciamo bella figura o no, in fin dei conti l’essenziale, per la maggior parte di noi, è qualcosa che non si vede, ma si percepisce nel cuore. Il giorno più bello della mia vita è quello in cui decido che la vita è mia. Nessuna scusa nessuna giustificazione. Nessuno a cui appoggiarmi o su cui contare, o a cui dare la colpa. Il dono è mio- è un viaggio incredibile e solo io sono la responsabile della mia qualità di vita. Non sono gli anni che contano nella vita. È la vita che mettiamo in quegli anni. La felicità in terra è data dalla libertà di amare e l’umiltà è il segreto. (Racconti,Murakami).

Fermiamoci, Jack. Riposiamo il cuore e la mente. Tu scendi pure, se ti va. Continua a percorrere la tua strada, il tuo viaggio. Perché poi è questa a bellezza della vita: lasciar correre gli altri. Vai. Non posso andare dove già sei.

Quando arrivi a essere ciò che sei, sei tutto. Mai guardarsi alle spalle. Ogni sbaglio sarà un sassolino che ti indicherà una nuova strada. La vita, in qualunque modo essa sia, vale la pena di essere vissuta. (into the wild)

E CONTINUARE A VIAGGIARE

Ho viaggiato abbastanza, tanto da dire che voglio ancora binari luccicanti da vedere. E scendere in altre stazioni, in cui perdermi e ritrovarmi in una tazza di caffè da condividere negli occhi di passanti che si fanno trascinare da valige.

Ho viaggiato abbastanza. Lo dicono le mie righe, i miei diari, mai sazi, bulimici di parole, di vortici interiori in cui l’esistenzialismo si riposava e si cullava nel peggior pendolino soppresso ad una fermata.

Ho viaggiato sempre. E sempre vorrò viaggiare per sentirmi nel cuore di un fischio di un treno che sia a vapore o che sia elettrico. Purchè vada là. Dove il mio cuore non sa.

 

LA PACE

La pace… La pace nelle mie lacrime. La pace di aver dato respiro alla mia anima. La pace dopo la fatica. La pace… Il silenzio in un boato interno. Qual parto dopo una lunga gestazione. Il suo sorriso. La sua tranquillità. La musica. L’odore acre dell’erba falciata. Il colore nella mia anima. La mia mano stanca nella sua. La pace… La voglia di rotolare nella vita come se fosse la prima volta, il mio primo giorno di vita, ogni giorno. La pace… Il ritrovarsi. Qui. Tutto alla mie spalle, non sulle mie spalle. Il fucile spara ombrelli colorati sotto i quali potermi proteggere da pioggia grigia e vedere solo colori. Ad occhi chiusi. La pace… Nelle fruscio delle onde del mare che riecheggiano il mio nome, da lontano. Quel 1981. Quel mare che mi ha partorita e mai lasciata come un osso di seppia. La pace… Affanno e sorriso di stanchezza, dopo carezze proibite per falso orgoglio e dignità fasulla. Abbracci immensi. Forti. Al punto che la dita penetrano le schiene senza fare male, perché è l’amore che muove il gesto. La pace…. Armonia di un insieme cercato e ritrovato. Un noumeno che diventa collettivo nella sorpresa e stupore del mio cuore ancora un po’ puerile. La pace… Nell’inchino di fronte ad un cappello gettato a terra. Nel ringraziare infinitamente le mani di chi ha applaudito, ed anche gli sbadigli di chi si è annoiato. La pace di una vita in poco tempo, nella ricchezza e semplicità di un “ci rivedremo”.

PASSAGGI INEVITABILI

Credo che prima o poi tutti noi, ogni singolo componente di questa terra, abbia un appuntamento con la storia. Con la propria storia. Che messa insieme a quella degli altri va a trovare un filo, un collegamento in più alla storia di un altro. E via dicendo. Fino a passare da ricordare quel singolo momento, epicale, come la miccia scatenante di una serie inevitabile di eventi necessari nella storia. E’ così che va. O che almeno dovrebbe andare. Pensate se il gesto di una persona fosse realmente utile a quello di un’altra, che poi lo tramuta in un altro ancora per un’altra persona e via dicendo. Tale da creare una unica comunità senza accorgecene. L’ideale! Ed il momento, il passaggio perché quell’evento avvenga; perché si arrivi all’appuntamento preparati. Quell’attimo prima in cui stai per uscire di casa, e mille volte ti guardi allo specchio per salutare il presente che sta per diventare passato, ogni secondo in più. Quel momento in cui più volte guardi negli occhi quella persona prima di un saluto per poi voltargli le spalle e salire su di un treno. Quei vari “prima di” hanno sempre il sapore della paura che trasmette adrenalina

ESISTE

Esiste.La parola che lei tante volte pronunciava a denti stretti, in un rumore sordo.Alle sue mani, ai suoi piedi. Al suo corpo intero. Ma non al suo cuore.

 Esiste. Esiste come la vita. Come la morte. Come la bellezza di un giorno al mare. Come la brezza. Come la montagna innevata e piacevolmente fredda. Esiste. Come un tremore tellurico. L’assenza di un secondo. Esiste l’esplorazione in un altro mondo, in un altro emisfero. Esiste come il gusto del gelato alla meringa. Esiste come la tazza di latte e caffè che scivola tra le mani e si frantuma a terra, in mille pezzi. Esiste come il comando da non potere avere. Esiste come il guardarsi allo specchio e non riuscire a scorgere che se stessi. Esiste come quei quadri che l’hanno incantata e paralizzata di fronte alla loro maestosità. Ed esistevano senza riuscire a capire il perché.

Esiste come la sua ingenuità. Come la sua impotenza. Esiste. Come il suo coraggio e la sua voglia di rimettersi in gioco. Sempre. In ogni istante della sua vita. Esiste come esiste lei.

Non saprebbe immaginarsi la sua vita diversa. Per quante mille volte abbia provato a farlo. Una vita in cui ha avuto tutto. La vita, innanzitutto. Le corse al mare. Le sbucciature sulle ginocchia. Il sapore delle lacrime ed il piacere delle risate. I primi, e non ultimi, sbagli. La voglia di urlare. La voglia del silenzio. La sorpresa.L’amaro in bocca delle delusioni. L’amore. I libri. Il computer. Il respiro. E quest’ultimo, a volte, interrotto da altri momenti di respiro, ma in dimensioni parallele. In cui solo lei poteva accedere. In cui solo lei poteva esprimersi. Sempre a denti stretti, per non far uscire la lingua, o non mordersela. E ballando in un modo inconsueto, senza un controllo ben preciso. E,alla fine di tutto, intontita, si rassicurava da sola, con un sorriso amaro,convincendosi che esiste. E quella parola sarebbe stata l’unico modo per continuare a vivere al mare, in montagna,in città, in campagna. Ovunque. Bastava vivere per lei. Vivere succhiando ogni giorno come fosse l’ultimo. Dimenticando i tremori, per un giorno. Ballando,respirando, ridendo, piangendo. Semplicemente come voleva lei.

E quando sapeva che quell’attimo stava per riproporsi, si allettava, in silenzio e si faceva forza, senza sfidare, ma pronunciando solo esiste.E così….si addormentava, o così sembrava da fuori.

VIAGGIARE NEI RICORDI

In questi giorni romani, dove il clima mi ha obbligato ad indossare di nuovo un maglione di lana, ed un cappotto, ho anche rivisto la mia faccia nello specchio di occhi di persone che non vedevo da tempo. E, riflettendomi in questi, ho ripercorso, come su rotaie veloci di una metro, i miei ricordi. Di ieri. Degli anni passati. Dei miei capelli lunghi. Delle sigarette fumate di nascosto. Delle mie paure affrontate, e di quelle che ancora mi aspettano su un ring. Dei “ci vediamo dopo cena alla solita ora”. Dei “ciao mamma, si tutto ok, ho mangiato. Adesso studio che lunedì ho l’esame”. Dei “si, lo faccio domani” e poi, la fermata della metro, ti fa scendere a quel “domani”. E’ un attimo. Ti volti. E sei già diversa. I capelli più corti, per i troppi tagli indecisi. Le sigarette spente, per sempre, in un posacenere. Le serate trascorse insieme che portano ad altre mattine da costruire. Ed i martedì che sono arrivati dopo i lunedì, consumati in aule fatiscenti universitarie e che ti hanno consentito una laurea. Sei già qui. E ti fermi. E ti chiedi cosa saresti senza la memoria di ciò che sei stata. Di ciò che ti ha portato ad essere dove sei? Io credo che sia importante, certo, andare avanti. Credere in questo. Dobbiamo farlo, per reagire. Ma credo anche che lasciarsi catturare da un sapore, da un odore, da una parola, una semplice parola, proprio quella, l’unica, che ripetevi con quella persona, e ripercorrere il viaggio nel proprio io. Per staccare e tornare a cullarsi per un po’, ad occhi chiusi, con un sorriso, senza maledirsi per non aver fatto abbastanza (tanto non ne vale la pena) sia doveroso nei confronti del nostro presente. Semplicemente per capire meglio dove stiamo andando, o, forse, ammettiamolo, perché ci piace anche distrarci un po’.

Quando sei infelice, torna nel luogo che ami. Lui, a differenza delle persone, ha sempre qualcosa da dirti.

Ed è proprio l’incontro con le persone che appartengono al nostro vissuto, il loro odore. Il notare i loro cambiamenti (che poi sono anche i tuoi) nel volto sopra quelle peculiarità fisse e permanenti come un neo, od una cicatrice. Quelli che li hanno contraddistinti quando li hai conosciuti, la prima volta, in un estate di salsedine, in un’estate dal sapore acerbo in cui di crescere non ne avevi proprio voglia, in cui di conoscere non ne potevi più.

Sono le rughe di un parente. E più passa il tempo più le conti, con la tristezza e malinconia nascosta e taciuta. Ed in una di quelle rughe ci sei anche tu. C’è anche parte della tua vita.

Sapere di aver contribuito al “modellare” il volto (diciamo così) di una persona a cui teniamo un pochino ci può inorgoglire. Perchè è l’interazione con il prossimo che porta ad arricchirci di nozioni.

Non solo. Relazionandoti quotidianamente credi di poter cancellare per qualche attimo un ricordo. Ma è proprio la volontà conscia che spinge sull’inconscio per tornare a rivivere in maniera più forte, più viva, magari anche quei momenti in cui, quando li hai vissuti, non avresti mai detto “sicuro, mi tornerà in mente sempre”. E basta un semplice, umile gesto come il passarsi le mani tra i capelli (per chi li ha ancora!), o assaporare, dopo tanto tempo, un gusto, che ci porta automaticamente a chiudere gli occhi e a risalire sulla nostra metro che ci ripercorre a quel giorno in cui da soli od in compagnia, in un posto x ad un’ora y abbiamo provato per la prima volta quel sapore. In cui le nostre papille gustative hanno registrato nel cassetto memoria un nuovo elemento

Personalmente trovo divertente ed edificante annotare ciò che mi colpisce di più, e che magari dopo un’ora non saprei più descriverlo, perché non ho più addosso quelle emozioni che in quell’attimo ho vissuto. Proprio come una fotografia. Soltanto scritta. Mi piacerebbe chiedere, ora, a ciascuno di voi, qual è il ricordo più forte, più bello di quest’ultima settimana.   Il mio è collegato ad un volto. Metro. Al mio fianco si siede un bambino. Lo guardo: carnagione scura. Occhi più grandi del viso. Neri come il petrolio. Quello della sua terra. E’ stato infinito il nostro dialogo fatto di sguardi, di stupore, di sorrisi. Era bianco e sincero il sorriso della madre, che cercava di sistemare i giochi che cadevano dal passeggino. E’ stato un attimo. Non sono scesa alla giusta fermata. Ma, sinceramente, per quel viso, per quegli occhi di PACE e per quel sorriso di AMORE, valeva la pena perdere tutte le fermate, di una metro, di un treno, di un viaggio. Per quei volti mediorientali, e VIVI.