CAFE’ CHANTAT: QUANDO IL PALCO DIVENTA “OSCENICO”

VAUDEVILLE IN DUE ATTI DI TATO RUSSO DA EDUARDO SCARPETTA
SCENE PEPPE ZARBO
COSTUMI GIUSI GIUNTINO
MUSICHE ZENO CRAIG
DISEGNO LUCI ROGER LA FONTAINE
COLLABORATORE ALLA REGIA LIVIO GALASSI
CON L’ORCHESTRA GRAN CAFE’ CHANTAT DIRETTA DA GABRIELLA DE CARLO
  • Tato Russo                 Felice Scioccammocca
  • Mario Brancaccio     Peppino Diodati
  • Clelia Rondinella     Carmela
  • Caterina Scalaprice  Yvette
  • Francesco Ruotolo    Ciccillo, il maestro
  • Diletta Boné               Luisella
  • Dodo Gagliarde          Aspreno
  • Antonio Botta            Giacomino
  • Salvatore Esposito    Don Vincenzo
  • Renato de Rienzo       Antonio
  • Massimo Sorrentino Don Carlo
  • Carmen Pommella    Donna Gigia
  • letizia Netti                 Bettina

Siamo nel 1893 e già Eduardo Scarpetta decide di denunciare la crisi del teatro di prosa scrivendo quest’opera. Il tramonto del capocomico, che non avrà più il proprio spazio, non verrà più rispettato dal pubblico, quest’ultimo che gira, invece come un cane affamato tra nuovi spazi di intrattenimento dove i costumi di un “Otello” o di una “Tempesta” di Shakespeare, vengono bruscamente sostituiti da lustrini e gambe femminili alla portata degli occhi di tutti. Nasce, così, uno studio socio /antropologico /teatrale per giustificare la nascita di un certo Cafè Chantat, a Napoli, Pozzuoli esattamente, ma anche dei molti che ne verranno a seguire in tante altre città. E che comporteranno il cambiamento di usi e costumi dell’uomo stesso. Della ricerca delle diverse necessità rispetto a prima. Del voler tutto e subito, rispetto alla “saggia lentezza” del teatro. Di quelle “tavolette di  legno”, su cui nascevano, vivevano e morivano innumerevoli personaggi.

L’attore-regista Tato Russo decide di riprendere in mano l’intera eredità di Scarpetta. E, sembra, con nessuna fatica e alcun peso. Insieme alla sua compagnia riadatta l’opera in un vaudeville in due atti, riproponendola presso Il Teatro Parioli, Roma.

La storia è la stessa: Don Felice Sciosciamocca insieme al suo fedele compagno di palco Don Peppino Spica, continuano ad inseguire il mito della prosa teatrale, dei grandi drammi, del sapere interpretare. Ma il tutto invano perchè sta prendendo sempre di più il sopravvento il Cafè Chantat. Felice cerca così di arrotondare con le sue “lezioni di recitazione e declamazione” in cui si cimentano due giovani amanti, Luisella e Giacomino, che si danno appuntamento in casa di Don Felice per vedersi all’insaputa di Aspremo, padre di Luisella, per progettare una fuga insieme. Intanto, Carmela e Bettina, prima artiste dell’operetta, oggi mogli dei nostri sventurati protagonisti, si lagnano del fatto che i loro mariti non sono in grado di sfamarle e così, dopo aver costretto Ciccio, servitore di casa Sciosciammocca, a svendere gli ultimi costumi di scena diDon Felice, accettano all’insaputa dei loro mariti, una scrittura per un nuovo Café Chantant che presto aprirà a Pozzuoli. Spinti dalla fame, anche Felice e Peppino decidono di accettare una scrittura per un Café Chantant escogitando un sistema, con tanto di “mazzate”, per non far sapere niente alle proprie mogli, alle quali non vogliono ammettere di essere caduti così in basso. Destino beffardo, i nostri protagonisti si ritrovano nello stesso Café in cui sono scritturate le loro mogli, con grande rammarico dei proprietari del Café Chantant, Don Carlo e sua sorella Gigia, che ormai credevano di aver trovato, grazie ai loro fidati servitori Totonno Vincenzo, l’uno due “sciascione” cui fare il filo, l’altra, vedova, due attori napoletani tra cui scegliere quello con cui risposarsi. Nel Café, intanto, arriva anche la coppia “Beròt “, così si fanno chiamare Giacomino e Luisella,mentre Don Carlo è alle prese con diversi altri problemi che lo spingono a pregare i soli “artisti” di cui ormai dispone ad improvvisare qualcosa per l’apertura imminente del Café, cosicché essi si trovano costretti a dover inventare, in sole due ore, un improbabile spettacolo fatto di canzonette, scenette.

Una commedia dall’eco eduardiano. Dove la risata è sì al primo posto. Ma è sempre quella dal gusto amaro. Quella che fa riflettere, in preda agli “a parte” di alcuni personaggi. Una commedia degli equivoci, con varianti che alludono a quelle latine, in modo particolare alle commedie di Plauto, in cui i personaggi, seppur per situazioni diverse, si perdono per “equivoci”, e poi si ritrovano negli stessi posti. Proprio come nel caso di “Cafè Chantat”. Tutti si perdono tra loro e si ritrovano su un “palco-oscenico”, dove”riperdersi” interiormente, tra canzonette e applausi forzati. Tra stacchetti e soubrette.Tra un trucco troppo marcato che enfatizza le rughe del troppo disagio. Ed ecco che la risata si fa ancora più amara, che l’arco, sulla faccia dello spettatore, inizia a spegnersi.

Magistrale un Tato Russo e la sua compagnia che, dietro a quel tendone roso del palcoscenico, ci ha riproposto una realtà non moderna, bensì contemporanea. Una situazione dove il teatro di prosa potrebbe avere più respiro. Una situazione contorniata da altre di notevole spicco. Come i media, come internet, come smartphone. Insomma: realtà che levano la capacità di poter ragionare con tempi anche dilatati, perchè bisogna adeguarsi alla velocità di una luce che brucia. E che può danneggiare, a volte, su di una terra che è come un “palco-oscenico”.

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