JACK KEROUAC E IO

“Le nostre valigie erano di nuovo ammucchiate sul marciapiede; avevamo molta strada da fare. Ma non importava, la strada è la vita.”

 (La strada di J.Jerouac)

Come direbbe il vecchio J. Kerouac. E mi piace immaginarlo, ora, seduto di fronte a me, con un bicchiere di whisky in mano, la sigaretta consumata tra le dita, le cuffie sulla sua testa e quell’aria da uomo affamato di umanità, con un sorriso saggio sulle labbra e tanta, tanta voglia di conoscere ancora. E avrei voglia di farmi una bella chiacchierata con il vecchio “Jack il mago” come l’aveva soprannominato Ginsberg, poeta statunitense, per farmi raccontare dei posti visti, degli odori, degli occhi delle persone. Se anche a lui capitava di sentirsi più a suo agio a parlare, durante il viaggio, con uno sconosciuto, nel chiedergli le abitudini, i pensieri del mattino e della sera, e altre cose. Perché, caro Jack, a volte io davvero mi sento più a mio agio a parlare con una persona che non ho mai visto prima in vita mia.  Mi ricordo che quando lavoravo in un locale, qualche anno fa, il mio divertimento puro era scambiare quattro chiacchiere al bancone con i clienti. E, caro Jack, non puoi capire quanto quelle ore di lavoro passavano più velocemente e con più leggerezza, mentre con meccanicità facevo un caffè; e intanto, tra il marrone scuro dei vari chicchi  che si macinavano e restituivano polvere scura,  entravo in paesi mai visti prima, o potevo vedere corpi e capelli di bambini color latte, mentre facevo un cappuccino. E che dire del rosso corposo dei vini e dei profumi di cocktail da colori vivaci e pestati , come un mojito. Che poi è vero che una persona la classifichi proprio in base a quello che ti chiede: sono fantastici quelli che si perdono nelle birre: loro sono decisamente i più alla mano, ti parlerebbero per ore e ore, con i loro jeans, le camicie sbottonate, e le scarpe da ginnastica un po’ consumata, si siederebbero dall’altra parte del bancone, con i gomiti appoggiati, e non ti lascerebbero mai sola, mentre le ore passano, e devi servire altri clienti. Che dire, invece, degli intenditori di vini italiani! Sorseggiano, fissano il bicchiere, scandiscono i nomi di qualche persona incontrata, o di qualche vento che per loro sia di notevole importanza; girano più volte il calice, per decantare, e si perdono nei vari cerchi che scendono sul vetro del bicchiere. E si ammutoliscono. Il bevitore di caffè è celere ma intrigante: poche parole ma buone. E’ il classico cliente che inizia una storia, e ti lascia in suspance perché deve correre da un’altra parte. Monetina sul bancone e “a domani”. Potrei andare oltre con tutta la lista dei cocktail, caro Jack, ma li conosci anche tu, visto che hai viaggiato più di me, e che anche tu sei stato frequentatore di bar e locali. Allora, lascia quel whisky, e prenditi una birra fresca, con me.

Barista portaci da bere! Va bene, caro Jack? Nel frattempo passami qualche estratto dal tuo romanzo sulla strada, per rispolverarlo insieme, per chiudere gli occhi, insieme, ed insieme rivedere.

Di tanto in tanto un bagliore fioco arrivava dall’agglomerato di baracche, ed era lo sceriffo che faceva la sua ronda con una debole torcia elettrica borbottando tra sé e sé nella notte della giungla. Poi vidi la luce dirigersi a scatti verso di noi e sentii il rumore dei passi attutito sul tappeto di sabbia e sulla vegetazione. Si fermò e diresse la luce della torcia verso la macchina. Mi alzai a sedere e lo guardai. Con voce tremante, quasi querula ed estremamente tenera, disse: “Dormiendo?”, e indicò Dean sdraiato sulla strada. Sapevo che quella parola significava dormire. “Si. Dormiendo.” . “Bueno, bueno”. Disse tra sé e sé, e si girò triste e riluttante per tornare alla sua ronda solitaria. Poliziotti così adorabili Dio non li ha mai creati in America. Niente sospetti, niente storie, niente noie. Quell’uomo era il guardiano del paese addormentato, punto e basta. Tornai al mio letto d’acciaio e mi sdraiai con le braccia spalancate. Non sapevo nemmeno se proprio sopra di me c’erano i rami d’alberi o cielo aperto, e non me ne importava assolutamente niente. Aprii la bocca a quello che mi sovrastava e presi grandi boccate di atmosfera della giungla. Non era assolutamente aria, piuttosto l’emancipazione palpabile e viva di alberi . restai sveglio. Il canto dei galli annunciò l’alba chissà dove fra i cespugli.(Sulla strada, J.Kerouac)

Una sorta di diario il tuo romanzo, caro Jack, dove hai scritto un po’ quello che hai visto: il paesaggio, la natura, gli americani; hai scritto esattamente cosa loro dicono, e come lo dicono, alla fine degli anni quaranta. Però, credo, che attraverso la descrizioni dell’esterno hai raccontato un po’ il tuo mondo interno, un desolato vuoto interiore. E ti inganni, se lo volevi nascondere, perché a un certo punto scrivi Tutto questo dentro un vuoto senza principio e senza fine.

Siamo a metà birra, vecchio Jack, e saltiamo da un bancone di un locale a una macchina rombante su di una strada. Ma tu, hai mai avuto paura del futuro? Dell’imprevedibile? Ti sei mai chiesto come sarebbero stati i tuoi giorni prossimi o li hai solamente vissuti nel presente? No perché, caro Jack, io a volte mi fermo. Penso al mio futuro. Si insomma tutto ciò che può avere a che fare con il lavoro, la salute, uno stato che mi rappresenti. E sai cosa? Ho paura. Lo ammetto. A volte ho paura del futuro. Quand’ero piccola non mi ponevo il pensiero. Vivevo in una campana di vetro e il massimo che potessi temere era una nota in classe o che i miei non mi facessero uscire. Era un mondo ovattato, il nostro. Guardavamo i grandi sbocciare e fiorire in un mondo di colori. Oggi non è così. Oggi mi sento grande e sbocciata. Ma a volte respiro solo smog, e illusioni. E non sempre mi sento rappresentata. E allora mi rinchiudo, mi ricerco in foto passate, vecchi diari, vecchie frasi, vecchi sorrisi. E nel frattempo cerco una soluzione, aspettandola anche dagli altri. Certo. Non posso deprimermi. Non serve a niente e a nessuno. Cerco di andare alla ricerca della positività. Nel ripetermi “a tutto c’è una soluzione” un po’ come quando faccio la valigia e mi prendono quegli attacchi di ansia, da non capire se tutta quella roba dentro basta o ce ne vuole ancora, e mi tranquillizzo dicendo “andrà tutto bene! Tanto poi un’anima che ti aiuterà ad alleggerirti la valigia ci sarà”. Ecco. Si credo che il futuro sia anche un po’ come una valigia piena di paure. Prima o poi qualcuno che ti aiuti ad alleggerirle ci sarà.  Per forza.

Ogni giorno della vita è unico, ma abbiamo bisogno che accada qualcosa che ci  tocchi per ricordarcelo. Non importa se otteniamo dei risultati o meno, se facciamo bella figura o no, in fin dei conti l’essenziale, per la maggior parte di noi, è qualcosa che non si vede, ma si percepisce nel cuore. Il giorno più bello della mia vita è quello in cui decido che la vita è mia. Nessuna scusa nessuna giustificazione. Nessuno a cui appoggiarmi o su cui contare, o a cui dare la colpa. Il dono è mio- è un viaggio incredibile e solo io sono la responsabile della mia qualità di vita. Non sono gli anni che contano nella vita. È la vita che mettiamo in quegli anni. La felicità in terra è data dalla libertà di amare e l’umiltà è il segreto. (Racconti,Murakami).

Fermiamoci, Jack. Riposiamo il cuore e la mente. Tu scendi pure, se ti va. Continua a percorrere la tua strada, il tuo viaggio. Perché poi è questa a bellezza della vita: lasciar correre gli altri. Vai. Non posso andare dove già sei.

Quando arrivi a essere ciò che sei, sei tutto. Mai guardarsi alle spalle. Ogni sbaglio sarà un sassolino che ti indicherà una nuova strada. La vita, in qualunque modo essa sia, vale la pena di essere vissuta. (into the wild)